Ricordo di un’estate (“Goodbye, Columbus” di Philip Roth)



Nel 1959, a 26 anni esci con il tuo primo racconto lungo (o romanzo breve) e vinci il National Book Award l’anno successivo.
Debutti così come scrittore, e ti chiami Philip Roth.

Nel tuo debutto letterario c’è già tutto il tuo mondo, i tuoi argomenti ricorrenti, la tua ironia e il tuo sarcasmo, le tue frasi brillanti e i tuoi dialoghi senza pietà.

C’è un giovane, Neil, bibliotecario ebreo di Newark laureato in filosofia, che conosce Brenda Patimkin, giovane bellissima sportivissima e vezzeggiatissima figlia maggiore di Ben Patimkin, ebreo che da Newark si è affrancato dopo essersi arricchito producendo e vendendo acquai e lavandini.

Sono dei parvenu, i Patimkin, ormai spostatisi nei quartieri ricchi di Short Hills, perbenisti e ipocriti come gran parte della società americana di allora.

E’ quello che pensi e non esiti a sfidare polemiche e accuse: cominci già dal tuo primo romanzo a mostrare come le cose non siano mai cosi semplici o definite, smascheri i filistei e i luoghi comuni, detesti la mentalità competitiva americana e le soffocanti tradizioni ebraiche, ma allo stesso tempo continui a sentirti legato al provincialismo della tua amatissima Newark.

E così il tuo protagonista, Neil, è allo stesso tempo attratto e respinto dai Patimkin: li detesta ma non resiste alla seduzione esercitata dal corpo di Brenda.
Perché ti è già chiaro che dal sesso si parte e al sesso si arriva, sempre.

Ci sei già dentro nel mondo di Portnoy, sei già quel Philip Roth che abbiamo letto dopo, sei già Zuckerman, Sabbath, Everyman.

E sei quell’inarrivabile modello di scrittura che ha creato un mondo (il mondo rothiano di Newark, ma anche di Central Park, dei campus universitari, delle foreste, dei cocktail e delle piscine dei club), popolato da quei personaggi (rothiani, anche loro) che sai evocare con poche battute, con un inciso, con una frase affilata come una lama.

Invece di prendere subito un taxi, arrivai in fondo alla strada e proseguii verso lo Harvard Yard, che non avevo mai visto. Entrai da uno dei cancelli e mi incamminai lungo un sentiero, sotto lo stanco fogliame autunnale e il cielo buio. Volevo solo stare solo e stare al buio; non perché intendessi pensare a qualcosa, ma piuttosto perché, almeno per un po’, non volevo pensare a niente. Attraversai tutto il parco e scalai una collinetta fino a trovarmi davanti alla Lamont Library dove, mi aveva detto Brenda un giorno, nei bagni c’erano dei lavandini Patimkin. Alla luce del lampione, sul sentiero alle mie spalle vidi la mia immagine riflessa nella facciata di vetro dell’edificio. Dentro era buio e non si vedeva nessuno, né studenti né bibliotecari. A un tratto fui preso dalla voglia di posare la valigia, raccogliere un sasso e tirarlo contro la vetrata, ma naturalmente non lo feci. Mi limitai a guardarmi nello specchio in cui la luce trasformava la vetrata. Non ero altro che questo: quella sostanza, pensai, quelle membra, quelle faccia che vedevo davanti a me. Avrei voluto correre dall’altra parte, più veloce della luce o del suono o di Herb Clark il giorno dello Homecoming, per essere dietro l’immagine e afferrare quella cosa che mi vedevo negli occhi, qualunque cosa fosse.

Dal mio personale santuario è tutto.


* Philip Roth, Goodbye, Columbus. 






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