Cina mon amour (“Cigni selvatici” di Jung Chang)
La storia tumultuosa della Cina e il suo millenario mistero hanno sempre esercitato un magnetismo potente e la storia di Jung Chang, o meglio, la sua insieme a quella di sua nonna e di sua madre, poteva avere le caratteristiche di una saga familiare trascinante, dall’epoca delle concubine fino alle grandi contraddizioni del maoismo.
Invece sulla scrittura di Jung Chang predomina una freddezza che è probabilmente il risultato di una vita segnata da grandissime sofferenze. Non a caso la parte più trascinante e coinvolgente è la prima, dedicata alla nonna e al periodo dell’invasione giapponese in Manciuria. E’ la parte di racconto più lontana dalle esperienze dirette dell’autrice e sicuramente quella a cui questa lontananza ha più giovato.
Il romanzo si sviluppa poi come un fiume inarrestabile di eventi e dettagli storici, snocciolati in modo a volte quasi asettico, anche nelle descrizioni più "poetiche" di una natura ostile e meravigliosa.
Ciò è vero soprattutto nella parte centrale e finale, dove l’ascesa di Mao Tse-Tung si traduce presto in campagne politiche incomprensibili e sanguinose, devastanti per la famiglia di Jung Chang, e dove nella narrazione si percepisce un carattere di trattenuto livore.
Intendiamoci, è un livore comprensibile e umano, di fronte alle indicibili sofferenze inflitte a milioni di cinesi, inclusi i genitori dell’autrice, ma non è utile alla narrazione, che si trascina faticosamente.
Tutto questo dolore non si traduce infatti in un percorso in cui la letteratura e il racconto diventano catarsi o semplicemente sfogo e sollievo: il romanzo sembra quasi assumere una forma politica, il che non rende però la complessità della Cina maoista.
Una complessità che non può risolversi con la divisione in buoni e cattivi, per un Paese che ancora ai giorni nostri rende omaggio al mausoleo di Mao Tse-Tung in Piazza Tienanmen.
Innegabile la fatica di giungere all’ultima pagina (di oltre seicento) : troppi dettagli, troppe elencazioni di nefandezze, troppo dolore che si somma a dolore, senza una pausa che consenta di respirare e di cogliere il flusso emotivo delle vicende.
Un libro che ha avuto il merito di raccontare ciò che prima non era stato raccontato, e non è un caso che abbia venduto milioni di copie in tutto il mondo e sia stato vietato in Cina, ma che non ha scelto se essere saggio, memoir o romanzo, mostrando limiti in tutte e tre le ipotesi.
*Jung Chang, Cigni selvatici
Tutto questo dolore non si traduce infatti in un percorso in cui la letteratura e il racconto diventano catarsi o semplicemente sfogo e sollievo: il romanzo sembra quasi assumere una forma politica, il che non rende però la complessità della Cina maoista.
Una complessità che non può risolversi con la divisione in buoni e cattivi, per un Paese che ancora ai giorni nostri rende omaggio al mausoleo di Mao Tse-Tung in Piazza Tienanmen.
Innegabile la fatica di giungere all’ultima pagina (di oltre seicento) : troppi dettagli, troppe elencazioni di nefandezze, troppo dolore che si somma a dolore, senza una pausa che consenta di respirare e di cogliere il flusso emotivo delle vicende.
Un libro che ha avuto il merito di raccontare ciò che prima non era stato raccontato, e non è un caso che abbia venduto milioni di copie in tutto il mondo e sia stato vietato in Cina, ma che non ha scelto se essere saggio, memoir o romanzo, mostrando limiti in tutte e tre le ipotesi.
*Jung Chang, Cigni selvatici
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