Viaggio intorno alla giustizia (La banalità del male di Hannah Arendt)







Ci sono frasi, espressioni, modi di dire, che rappresentano un intero sistema logico, che al solo essere pronunciate evocano un mondo complesso di valori, punti di riferimento, chiavi di lettura dei fenomeni.
“La banalità del male” è una di quelle espressioni spugnose, che assorbono e rilasciano in base al contesto in cui vengono usate. 
Non c’è articolo di cronaca nera che non tiri in ballo questa espressione, soprattutto se si tratta di persone comuni e insospettabili che all’improvviso compiono delitti atroci ed efferati.
A un certo punto mi sono stufata e ho deciso di leggere il famoso libro di Hannah Arendt dedicato al processo di Eichmann che si svolse a Gerusalemme nel 1961: mi sono ripromessa che in futuro userò l’espressione “la banalità del male” solo in aderenza al senso di chi l’ha concepita e argomentata.
Le parole sono importanti, mi ripeto sempre, e vanno usate con parsimonia e circospezione.  
Pensavo fosse un saggio filosofico e ne avevo una certa soggezione, invece è bastato leggere le note di retro copertina per capire che si trattava di un vero e proprio reportage che Hannah Arendt fece come inviata del New Yorker. In quanta ignoranza avevo navigato fino a quel momento! 
Ecco, si tratta di un reportage giornalistico, sebbene scritto da una filosofa, quindi la lettura è meno difficoltosa di quello che si può supporre.
La prima cosa che ho pensato è che se fossi un insegnante mi piacerebbe leggerlo in classe ai miei allievi, per poi discutere con loro sui nodi principali di riflessione che l’autrice sottopone al lettore. 
Le domande che si pone Arendt nel libro sono quelle che fino ad allora nessuno aveva avuto il coraggio di porre: furono motivo di molte polemiche e di violenti attacchi, ancora prima che il libro stesso venisse pubblicato. 
Il racconto della persecuzione nazista e del progetto folle di sistematica eliminazione degli ebrei ha sempre un fascino sinistro, quasi gotico, che ci attrae come fosse la lettura di un thriller.
Ma c’è un nucleo incandescente che resta dopo la lettura di questo libro, che va molto oltre. 
C’è un brano, che l’autrice riporta nell’epilogo, dove lei immagina le parole che avrebbero dovuto rivolgere i giudici a Eichmann per dimostrare al mondo intero che il processo cui era stato sottoposto era stato un processo GIUSTO. 
Ne riporto solo un estratto, il finale. 
Sono parole che mi sono costate una notte insonne, e che da sole valgono la lettura di ogni sillaba di questo potente resoconto.

“ […] La politica non è un asilo: in politica obbedire e appoggiare sono la stessa cosa. E come tu hai appoggiato e messo in pratica una politica il cui senso era di non coabitare su questo pianeta con il popolo ebraico e con varie altre razze (quasi che tu e i tuoi superiori aveste il diritto di stabilire chi deve e chi non deve abitare la terra), noi riteniamo che nessuno, e cioè nessun essere umano desideri coabitare con te . Per questo, e solo per questo, tu devi essere impiccato”. 


* Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme.



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